Monica Bonetto
attrice doppiatrice autrice

Data pubblicazione intervista:

14/01/2015

Il suo percorso di donna e artista. Quali elementi differenziano il modo di lavorare di una donna rispetto a quello di un uomo?

“Non direi ci siano differenze operative, la discrepanza c'è nel momento in cui si decide di creare una famiglia; la donna accetta compromessi che l'uomo non si pone. Con i figli piccoli la madre, attrice, rinuncia alla tournée”.

Un segmento del suo lavoro però è unisex: lei, in quanto doppiatrice, quanti uomini ha fatto parlare?

“Non proprio uomini, ma ragazzi, bambini, dai 6 agli 11 anni. Nella mia voce deve essere forte la componente da monello, sì, mi sono congeniali; ho cominciato per caso, tempo fa, si doveva doppiare un adolescente, al provino eravamo in molti ma nessuno sembrava adatto ed io ero passata tra le ultime, stupendo tutti, compreso me stessa: mi era bastato arricciare le sopracciglia simulando il broncio ed ero diventata quel personaggio. Ho buone capacità di mimesi vocale, non soltanto nel tono ma anche nelle intenzioni ed assumo intonazioni autentiche anche in ruoli di ragazzini”.

Il doppiaggio permette ad un'attrice di esprimersi appieno?


“Di solito lo si usa come integrazione, quando non si riesce a fare abbastanza teatro, o cinema o televisione; il mio è un caso un po' diverso, la prima volta mi sono sposata molto giovane con un uomo che non faceva l'attore e non vedeva di buon occhio il comparto dello spettacolo, fare doppiaggio mi consentiva di recitare restando stanziale, poi sono risultata brava e mi sono appassionata...”

Tra la vocazione artistica e la raggiunta autonomia c’è stato un divario?

“E' una storia lunga. Da piccola non osavo confessare che volevo fare l'attrice; crescendo, i miei genitori mi avevano pagato l'Università e con questo mio desiderio mi sembrava di non dare corpo alle loro aspettative, però mi sono laureata in Letteratura Teatrale, l'argomento più vicino a quello che mi auguravo diventasse il mio mondo e poi ho seguito un corso di dizione, perché un'insegnante deve sapere parlare; in quel contesto incontrai chi mi disse che ero brava e che avrei dovuto iscrivermi ad un corso di teatro. Intanto avevo cominciato a collaborare con TorinoSette, l'inserto settimanale de La Stampa, scrivevo nelle pagine del teatro e frequentavo molto le platee, per informarmi, per imparare ed approfondire. A quel punto mi pareva sbagliato scrivere di teatro e al contempo farlo, almeno nello stesso luogo. Per arginare la mia sensazione di conflitto di interesse, trovai una soluzione nello sdoppiamento: se a Torino, dove vivevo e vivo, di professione ero giornalista, fuori potevo essere attrice, speaker, doppiatrice”.

Ha fruito della solidarietà della famiglia?


“Un grosso cambio di rotta è avvenuto quando mi sono separata ed ho trovato un marito con la mia stessa passione; scriviamo a quattro mani completando reciprocamente le frasi, insieme abbiamo deciso di creare una compagnia per poter rappresentare storie nostre. Rispetto alla famiglia di origine, mia mamma ora è contenta e mi ha confessato che mio padre, quando ero bambina e mi fotografava senza che me ne accorgessi, mi chiamava la mia piccola attrice”.

Racconti, se si è verificato, un episodio determinante per la sua scelta professionale.


“Non un accadimento, ma l'insieme di certe emozioni vissute da spettatrice, di fronte ad attrici come Paola Roman o Elisabetta Pozzi o all'opera di una regista come Cristina Pezzoli: in quegli attimi ho voluto emulare una recitazione semplice ed assieme viscerale. Per questo non ho scelto di fare il grande teatro di avanguardia, ma qualcosa di piccolo, che però potesse arrivare a tutti. Nei miei spettacoli sto attenta a non perdere mai il pubblico: se questo accade, se il legame tra palco e platea è saldo, alla fine, io, sono felice”.

Finanziamenti pubblici: cosa pensa della relazione tra denaro e cultura?

“Stato, regione, provincia, città, tutti gli enti penso abbiano il dovere morale e si debbano prendere la responsabilità di occuparsi anche di cultura, però il denaro pubblico deve essere speso non perché certuni sopravvivano ma per fare qualità, per produrre spettacoli degni, in grado di girare, così si concretizza la bellezza in messinscene vive e da queste rinasce, moltiplicato, l'investimento economico”.

L’essere donna è stato un vantaggio, un ostacolo o un aspetto ininfluente?


“Uno svantaggio finché sono stata più giovane: non volendo parti o ruoli attraverso l'avvenenza (non che ne abbia tanta, ma era già abbastanza), ho dovuto difendermi. Non mi sono mai fatta imbrigliare da ricatti pseudo sessuali, il lavoro su più fronti mi ha consentito la libertà. Lo spartiacque poi è stata la mia malattia”.

Lei ha superato un tumore al seno: ne vuole parlare?

“Sì, perché è stata molto importante. In quel frangente ho deciso di scrivere gli spettacoli che sentivo di dover realizzare, ho raccolto tutto quello che avevo imparato e ho stabilito di usarlo per qualcosa di mio. Avevo passato gli anni a recitare parole altrui, anche memorabili, ma era tempo di darmi voce. Era il 2003, avevo appena scoperto la storia di Leonilda Prato di Pamparato, una straordinaria musicista e fotografa, vissuta in Italia e Svizzera tra l'800 ed il 900; se guarisco, mi ero detta, sarà il mio primo monologo: è diventato “Gli occhi di Leonilda”; l'ho scritto in quattro giorni, nel 2009, sapevo cosa volevo raccontare, un personaggio che è un inno alla vita. Quel periodo mi ha aiutato a capire che è importante fare quello di cui sei capace senza dare peso a cosa dice la gente”.

“Gli occhi di Leonilda” è un lavoro intenso e lungimirante, che l'estate scorsa ha anche conquistato il Premio Ermo Colle 2014: siete soddisfatti?


“Sì, ma la gratificazione è venuta molto dall'esserci resi conto di aver sedotto un intero paese: ci hanno riferito che anche alcuni irremovibili giocatori di briscola hanno lasciato le carte per venire ad ascoltare le nostre storie”.

Quali argomenti privilegia?

“Le tematiche femminili sono la quadratura del cerchio tra il teatro e la passione civile: ho trovato così lo strumento, il cuore, il senso del mio stare in palcoscenico”.

“Malevolevabene”, la sua seconda pièce, ha debuttato nel 2013: posso dire che tratta soavemente di violenza? E sta anche lavorando ad altro?


“Lo spettacolo è nato mentre ne stavo elaborando un altro, sul femminismo; quest'ultimo è un progetto in fieri, ma è un discorso talmente ampio che non ho ancora trovato il bandolo e non voglio essere banale; dunque, ricapitolando, ad un tratto ho sentito l'esigenza di spiegare il femminismo a mia figlia adolescente, ho voluto dirle che c'è una dignità a cui non si può rinunciare, anche se io stessa mi sono impegnata in questa ricerca perché vorrei comprendere cosa non ha funzionato, perché abbiamo perso di vista le cose importanti, perché le ragazze pensano che sia normale stravolgersi, indossare reggiseni imbottiti da bambine, diventare marionette. Allora, guardandomi attorno, ho intercettato ovunque la violenza e ho deciso di concentrarmi su storie piccole: per quelle grandi, che sfociano nel femminicidio e indignano tutti, c'è la cronaca. Così, per capire come siamo complici di queste violenze, anche surrettizie, ho cucito tre soliloqui paralleli, di una figlia, una madre, e un lupo. Il lupo cattivo delle favole, con i suoi luoghi comuni, incarna la stupidità della cattiveria. La figlia è malmenata, la madre subisce prepotenze annose ed è serva del marito e, se i modelli sono d'esempio, la figlia è serva e schiava”.

Cosa lega queste tre figure?


“Ho deciso che il filo rosso dovesse essere la ripetizione, così ho voluto un unico tema musicale sulle note di una piacevole canzoncina del Quartetto Cetra, che dà il titolo al lavoro; un brano arrangiato da Davide Sgorlon, tanto gradevole e famoso, ma in cui in realtà si descrive un femminicidio e la cecità incommensurabile della donna, la quale non accetta di riconoscere nel proprio marito un violento, qui assassino”.

I progetti, le date e le idee della sua compagnia sono su www.cpemteatro.com


Per concludere, ha qualche consiglio da dare ad artiste emergenti?

“Se c'è questa passione è inutile resisterle, è giusto rispettarla preparandosi davvero bene, perché è un viaggio periglioso, si ha la responsabilità del pubblico, quindi vanno affinati tutti gli strumenti del mestiere. E, nel rispetto di se stessa, che ciascuna trovi la propria strada”.